KOMAGATA, LO SCIAMANO COSTRUTTIVISTA di Maurizio Loi

Katsumi Komagata è un designer giapponese che ha lavorato per un certo tempo negli Stati Uniti, esperto di packaging, cioè esperto nell’arte di costruire scatole e imballaggi di cartone o di carta pesante.

Fin dall’antichità c’è in Giappone l’usanza di avvolgere con cura cose di vario genere. Da ciò deriva la tradizione di impacchettare oggetti nelle forme più varie, utilizzando per questi lavori artigianali materiali come legno, bambù, paglia e…carta. 

“Tsutsumu” è il nome che si dà all’arte di impacchettare le cose[i]

Komagata ha vissuto nella quotidianità l’usanza giapponese di confezionare pacchetti. Al tempo stesso egli è artista contemporaneo, le sue opere sono state esposte al Moma di New York, e in molte altre istituzioni prestigiose. A vario titolo, e in varie occasioni, è stato presente alla Fiera del libro per bambini di Bologna. La Biblioteca De Amicis nel 2005 gli ha dedicato una mostra “La Valigia Komagata”[ii] che ha riscosso un grande interesse.  

Komagata è conosciuto soprattutto per la collana di libri per bambini Little Eyes, attraverso la quale alcune bibliotecarie francesi[iii] hanno introdotto la sua vasta opera in Europa.

Il primo volume è composto di fogli separati e ripiegati nei quali campeggiano quadrati, rettangoli e triangoli, che si stagliano neri su fondo bianco. Nei volumi successivi queste forme diventano colorate, si passa dall’Astrazione Geometrica alla Figurazione Narrativa.  

Il repertorio formale dei primi volumi ricorda la Minimal Artche così viene descritta nella Garzantina dedicata all’Arte

Minimal Art. Tendenza   artistica sviluppatasi negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento. La Minimal Art ha le sue radici nel Costruttivismo, nella versione che Joseph Albers, già docente al Bauhaus, aveva divulgato con il suo arrivo in America. Questo movimento è caratterizzato per la drastica riduzione e semplificazione delle forme (con preferenza per le “strutture primarie”, le forme geometriche elementari, gli elementi modulari e seriali) e dei colori (fino al monocromo) e per lo spostamento d’interesse dalle componenti soggettive ed espressive dell’opera a quelle strutturali e percettive[iv]

Bisogna ricordare che alle origini di questa tendenza artistica, fatta di forme primarie, troviamo anche un costruttivista russo, Malevitch, e la sua opera più famosa, Quadrato Nero su Fondo Bianco (1920 ca). Opera che ho avuto la fortuna di vedere dal vero andando a visitare le collezioni permanenti del Centre Pompidou di Parigi. 

È importante vedere dal vero le opere d’arte, perché in quel momento sono lì apposta per noi, e ci avvolgono nella loro aura. Solo allora ci rendiamo conto che da esse emana una forza che nessuna riproduzione potrà mai restituirci! 

In quel tempo, erano gli anni Novanta, passavo gran parte dell’anno a Parigi per studio e per lavoro, e avevo preso l’abitudine di andare al Museo quasi tutti i giorni. Così ho avuto modo di osservare più e più volte il quadrato di Malevitch.

Come descrivere un opera così semplice? 

Forse le parole di Malevitch stesso possono avvicinarci: “Io non ho inventato nulla – disse – solamente ho sentito la notte in me stesso”. 

Inteso così il suo Quadrato appare come una finestra aperta sul buio, cioè come un vuoto. Queste parole, però, ho avuto modo di leggerle solo anni dopo.

 

A quel tempo, non ho pensato alla notte di cui parla poeticamente Malevitch. 

Io non ho percepito un vuoto, ma un pieno!

Davanti a quel quadrato, ho visto una forma pura e razionale, e al tempo stesso un oggetto magico, che pareva possedere le qualità che sprigionano da quelle statuette lignee africane piene di chiodi e di conchiglie, che si incontrano nei musei etnografici. In questa duplice lettura, il quadrato mi appariva come un seme geometrico che racchiudesse, nella sua materia oscura e densa, molteplici forme in procinto di germogliare ed espandersi. Ma destinate a rimanere a me ignote. 

Scritte queste parole sono andato a cercare un libro della mia biblioteca. È di Munari, titolo “Il quadrato” [i]. La copertina è un quadrato bianco di quindici centimetri di lato, con al centro un quadrato nero più piccolo. Si pensa subito a Malevitch. Solo che il quadrato di quest’ultimo è molto più grande ed arriva quasi ai bordi della cornice, è più impressionante, più pervasivo. Quello di Munari è più misurato, più luminoso, più amichevole. Sul retro della copertina c’è un altro quadrato nero, ruotato sulle punte, come se fosse un rombo, che porta questa scritta:

IL QUADRATO. Alto e largo quanto un uomo con le braccia aperte, il quadrato sta, fin dalle più antiche scritture e nelle incisioni rupestri dei primi uomini, a significare l’idea di recinto, di casa, di paese. Enigmatico nella sua semplicità, nella monotona ripetizione di quattro lati ed angoli uguali, genera una serie di interessanti ed infinite figure. Bruno Munari.[ii]


Scorrendo le pagine di questa meravigliosa summa, il quadrato viene scomposto e ricomposto, trasformato in altre figure geometriche, origina architetture, forme naturali, è svelato nelle sue misure segrete. Komagata conosceva ed ammirava l’opera di Munari, in particolare i suoi Prelibi e i suoi Libri Illeggibili.

Alla fine degli anni Ottanta, a Komagata accade un fatto molto importante, nasce sua figlia. Come racconta egli stesso, sin dai primi momenti, sente il bisogno di comunicare con lei in modo complesso. Progetta, quindi, un sistema di segni che sia comprensibile al papà e alla figlia, pur in tenerissima età. 

A questo scopo, riprende in mano il vocabolario formale delle antiche scritture, perché quei segni primari che stanno all’origine dell’umanità appartengono alla nostra memoria collettiva universale. Quel vocabolario lo rivisita in chiave costruttivista o minimalista. 

Le sue figure geometriche, campite con stesure piatte di colore, su fondo bianco, ricordano Malevitch e Munari, ma poi entra in gioco l’arte giapponese dell’imballaggio! 

Cosa fa Komagata? Prende dei cartoncini bianchi rettangolari, lunghi e stretti, e li piega in modo da ottenere un trittico. Cioè un mini libro composto di un pagina centrale, sulla quale si ripiegano le due pagine laterali sino a sovrapporsi perfettamente. Proprio come le pale d’altare medievali, solo che quelle sono di legno e sono molto grandi. Questi cartoncini, una volta ripiegati, formano un quadrato di tredici centimetri di lato. 

La dimensione dei cartoncini è molto importante perché devono poter essere tenuti agevolmente dalle mani di un bambino.

Komagata prepara dodici cartoncini pieghevoli, e su ognuno di questi imprime delle semplici figure geometriche. Nel primo, per esempio, si vede un cerchio nero posto al centro della pagina. 

Si gira la pagina, e…oh! Meraviglia! Si scopre che il cerchio ha un foro al centro, cioè è una corona circolare. Ma noi prima di girare la pagina vedevamo un cerchio completo. Come mai? Perché il foro centrale funziona come una finestra che dà su un secondo cerchio nero più piccolo. 

Giriamo anche la seconda pagina. Ora appare sulla pagina centrale un cerchio ancora più piccolo. Il cerchio grande subisce una metamorfosi, in tre passaggi diventa una forma sempre più piccola. L’intera figura è quindi composta da due corone circolari, un piccolo cerchio, e da due finestre circolari vuote. L’invito è questo, se guardate con attenzione il mondo fenomenico, scoprirete che anche il vuoto ha una forma

Richiudendo le pagine, la forma originaria si ricompone. In questo modo, Komagata enuncia visivamente una legge di trasformazione ed un principio di reversibilità che si propagano per tutti i mini libri di cui è composta la collana. È interessante notare come questa piccola magia percettiva e concettuale si compia semplicemente maneggiando della carta. 

Le dodici carte trasformano cerchi, quadrati, triangoli, sempre applicando lo stesso meccanismo cartotecnico. Ma le leggi di trasformazione mutano. Si passa da grande a piccolo, da piccolo a grande, le figure si spostano. Quadrati si trasformano in cerchi e triangoli, si moltiplicano, si allungano e si accorciano. Si sviluppa così un linguaggio spaziale basato sulla metamorfosi e sugli spostamenti, alto, basso, destra, sinistra, pieno vuoto. Un sistema simbolico per costruire i mattoncini di una comunicazione complessa che evolve insieme al bambino, accompagnandolo con la parola e con la propria presenza.

Komagata poi prende queste dodici carte e le inserisce in un astuccio a scivolo che si trasforma mentre si apre. Vengono così realizzati dieci pacchetti, contenenti una moltitudine di metamorfosi. Si passa dal bianco e nero al colore, dalle forme geometriche ad immagini del mondo naturale.

Come un antico sciamano, Komagata ha dotato di poteri magici questi oggetti. Non è un caso se i bambini che prendono nelle loro piccole mani queste carte parlano di “libri che sono magici”

Percorrendo l’opera di Komagata, che è fatta di molti splendidi libri, si viaggia in un universo dove nulla è come appare, tutto si trasforma in qualcosa d’altro. Ma al di là del caos si può intravvedere un ordine.

[i] Bruno Munari, Il quadrato. La scoperta del quadrato, Corraini 2005. Prima edizione 1960 Scheiwiller. 

[ii] Ibidem.


[i] L’arte del Tsutsumu in Giappone. La confezione tradizionale dei pacchetti, Istituto Giapponese di Cultura, Roma – The Japan foundation, Tokio, 1982. Prefazione di Bruno Munari. 

[ii] Maurizio Loi, La valigia di Komagata, LG Argomenti n. 2 anno XLI aprile-giugno 2005, Erga edizioni, pp. 37-44. Rosanna Polimeni, Maurizio Loi, La valigia Komagata un gioco fra ordine e disordine, LG Argomenti n.4 anno XLI ottobre-dicembre 2005, Erga edizioni, pp. 58-62

[iii] Les Trois Ourses, associazione francese per la diffusione del libro d’arte.

[iv] Le Garzantine, Arte, 2002, alla voce Minimal Art.

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